Il Barone di Munchhausen

Ho un rapporto di particolare e assai singolare familiarità con la Germania e con i suoi abitatori germani. Parlo della Germania, non di Berlino o di Amburgo o di Monaco, tanto per intenderci. Parlo, che ne so, di Münster, con la sua lucina accesa lassù sul campanile per ricordare e ricordare e ricordare un secolo via l’altro; Münster, che lì, dicono di sé, o piove o suonano le campane, e se piove e suonano assieme le campane vuole dire che è domenica. Parlo di Bochum, nero distretto del carbone, che la gente per la strada si chiede se quest’anno verrà mai l’estate, mentre l’anno scorso, l’anno scorso s che bella, me la ricordo bene è venuta che era giovedì. Parlo di Kiel, di Rostock, parlo del Baltico e dei suoi marinai, tutti quanti dei gran fischkopf, teste di pesce, dicono di loro i terroni del Baden e di Baviera. Parlo della Turingia, della Sassonia, parlo dei campi di luppolo e delle foreste, parlo dell’Elba e parlo di Wittenberg, dove l’ultima volta che c’è stato u po’ di casino è stato quando Lutero ha inchiodato le sue tesi alla porta della cattedrale. Parlo della Germania interiore, interiore davvero, luterana. E romantica. E qualcosa che non so, ma c’è, e fa sì che un rivierasco mediterraneo ci vada e ci voglia restare il più possibile, evitando magari il tempo della merla, neanche fosse casa sua, la casa di un’altra vita perlomeno, chissà quando mai vissuta. Non può essere l’attrazione degli opposti, non lo è. È una faccenda, mah, non saprei come dire, di inesplicabile intimità. Sono stato nella Foresta Nera, si capisce, infinita, bellissima, tenuta in palmo di mano, ma la cosa più bella della Foresta Nera sono i germani che guardano la loro foresta. Si mettono lì, in alto su appostamenti già descritti da Tacito, sparsi nell’universo, solitari o raccolti in tribù, a occhi nudi o binocolati, comunque in perfetto silenzio, silenziosi come una preghiera agostiniana, e se la guardano, se la guardano per ore e ore. E io li guardo, e non mi stanco di guardarli perché vedo qualcosa che mi commuove, che mi strugge. Vedo me che guardo la vigna che ha appena finito di potare mio nonno. Vedo me bambino e poi ragazzo e poi adulto, guardare il miracolo di quella bellezza inqualificabile, e sentirla e amarla come se fossi io stesso un tralcio di quella vigna. Abitatore abitato. Molto romantico, non c’è che dire. E folle. E piuttosto faticoso come esborso di energia. Perché i Germani, per quello che ne so, e io e mio nonno, abitiamo ogni cosa, non solo la vigna e la foresta. Abitiamo il lavoro che facciamo, abitiamo la relazione sentimentale che instauriamo, abitiamo le opinioni che ci facciamo. Abitare è un po’ di più di fare, o guardare, o pensare, ci vuole più lavoro, un lavoro immenso perché l’abitatore è responsabile di ogni cosa. E ci vuole naturalmente più coraggio. E da qualche parte di schiude un certo qual seme di pazzia. Magari ancestrale panica follia, vallo a sapere. Ma c’è, perché non si può abitare se stessi e il mondo, e tenere a bada ogni cosa, che ogni cosa sia materia e immagine di utile bellezza, senza essere abitati da una luce di anarchica follia.
Infatti ci sarà pure una ragione perché è dei Germani la storia più pazza mai raccontata in un libro umano. Dico sul serio. Pura, semplice, sorgiva, creaturale follia. Assolutamente amorale, non sfiorata da inibizione alcuna. È assai probabile che negli ultimi trenta, quarantamila anni si siano sentite storie ancora più pazze, ma ascoltate intorno ai fuochi cavernicoli, nei bar persi nelle nebbie boreali, nelle tiepide stalle padane, ma mai messe nero su bianco, che mi risulti. Anche lì ci vuole del coraggio. Parlo di un libro pubblicato un paio di secoli or sono e il titolo è universalmente noto. Le straordinarie avventure del barone di Münchhausen. Cosa ci sia dentro secondo me sono in pochi a ricordarlo. È un libro rubato dai ragazzini agli adulti e fatto sparire ai loro occhi da troppo tempo. E pensare che chi l’ha critto non ci pensava manco di striscio ai ragazzini, e mi sa tanto che i padri di famiglia lo abbiano rifilato ai loro figli perché era ai loro occhi e alle loro coscienze troppo, veramente troppo. Quel libro è la creazione del più grande bugiardo di tutti i tempi, un bugiardo privo di alcun altro scopo se non l’adorazione, l’estasi al cospetto dell’atto stesso del mentire. Non avendo alcun fine utilitario, non essendo strumento se non dell’affermazione della pura follia dell’iperbole, attiene in qualche modo alla sacralità. L’essenza primeva stessa della narrazione. Che la sua necessità risiede nel saperle dire così grosse dal farsi perdonare il crimine di non saper fare qualcos’altro di più utile per la comunità, e di stare a sentirne di talmente grosse da potersi convincere che la vita non è solo farsi un mazzo così per arrivare sani e salvi la sera alla caverna. E la sacralità nel fatto che quella roba lì è una risorsa talmente preziosa per sopravvivere da considerare prudentemente la necessità di attribuirle uno statuto di intoccabilità. Poi, nel corso del tempo, con il complicarsi delle culture, delle civiltà, delle relazioni, tutta roba che non è altro che la somma di mediazioni di mediazioni di mediazioni, la narrazione si è fatta un bel più loffia, per così dire, sottraendole ogni volta qualcosa per aggiungerle qualcosa di più, fino al dissanguamento della sua linfa primigenia e all’algido sfinimento letterario dei giorni nostri. In effetti, Le straordinarie avventure del barone di Münchhausen, sono il documento che ci rimane delle più antiche storie del mondo; vorrà pur dire che sono perlopiù storie di caccia. E se non c’è un dio, è perché il dio è già un passaggio un po’ sofisticato. Storie selvagge, ecco cosa sono. Pazze, perché vengono prima di ogni regolamentazione contenitrice. Ormai indigeribili a chi è assuefatto alle mediazioni e ai precotti. A meno che non si sia conservata, proprio lì, al calduccio del tiepido nido scavato nel cuore dall’imperativo morale, una scintilla di panica, primitiva, umanità. Come mio nonna, io e i germani. E i bambini, i bambini non OGM.
Ecco, cito qui un pezzettino, uno qualunque, da Le straordinarie avventure del barone di Münchhausen:
Ero in una situazione disperata: alle spalle il leone, davanti il coccodrillo, a sinistra il fiume impetuoso, a destra un precipizio formicolante di serpenti velenosi…
Vi ricorda mica qualcosa? Non dite di no perché sono sicuro che l’avete visto, se non altro a causa dei vostri figli. Questa è una scena di Indiana Jones, che altro? Il barone è ancora qui, tra noi, c’è troppo bisogno di lui, ancora.

La Stampa, 4 febbraio 2015