Per l’Ufficio Stampa (Guglielmi?) da Maurizio Maggiani (1993)

Per l’Ufficio Stampa (Guglielmi?) da Maurizio Maggiani.
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Ma è questo quello di cui avete bisogno? Non mi è mai venuto in mente che l’ARCI potesse mettere su una ditta di raccontini. Comunque buon lavoro.

Per diverse buone ragioni della vita, io un posto mio ancora non ce l’ho. Voglio dire una casa, un paese; qualcosa come un riparo certo, forse una famiglia, un totem, un luogo del di dentro adagiato sopra un paesaggio confortante. Ho vissuto in molti luoghi con diverse persone oppure solo; bene o male che sia stato non ho mai cessato di essere limato dalla nostalgia per qualcosa che neppure conosco con certezza, la passione per il ritorno in un luogo sconosciuto dove poter sostare. Forse vorrei tornare semplicemente dove sono stato felice, quand’ero un bambino campagnolo, ma questo -sempre che ci sia davvero stato- è un posto che non esiste più, fa parte ormai solo della mitologia mia personale, e se volessi descriverlo racconterei un sacco di bugie.
Credo che sia per questo motivo che faccio sin da quando ero ragazzo un sogno ricorrente. In questo sogno, puntata dopo puntata, io vado costruendomi il mio posto. A questo punto della mia vita e dei miei sonni è una grande città ma anche un piccolo paese; c’è il mare, le colline, ci sono grandi strade a più livelli e grattacieli arzigogolati (questo perché leggevo da ragazzo Flash Gordon) e lì vicino pergolati e cantine, piccole frazioni e chiese antiche. Il paesaggio è sempre mosso da una quantità di particolari e colori e mi fermo sempre a salutare la gente che incontro perché curo di metterci dentro tutti i miei amici, le persone fidate; tra le tante singolarità la luce è la più strana, perché tutto quanto è sempre trapassato da un tramonto vivo e lucente che degrada piano piano in un vespertino chiaro e sereno.
Mi sono spesso chiesto da dove prendevo i materiali -diciamo così, edilizi- per costruire questo mio posto, e la sera del 21 giugno scorso ho avuto la certezza che si tratta dell’alma città di Genova. Sono venticinque anni che frequento nei più diversi modi quella città, ma solo un mese fà si sono combinati gli oggetti e le impressioni in un’associazione vivissima e sconcertante. Oh, è stata una gran cosa, un’esperienza bellissima e drammatica, penso anche magica. Si, non me ne vergogno, ma è successo qualcosa che mi ha fatto pensare a una fatturazione, a una di quelle robe che mettono l’interiore a soqquadro muovendo da certe arti dello spirito ch’io potrei riconoscere ancora oggi pensando agli occhi di mia nonna, ricordando il suo modo di farmi passare la paura o il mal di stomaco, o per farmi compreso della natura segreta delle cose. Del resto se è successo il 21 del mese di giugno è proprio per una mia ostinazione a fare del solstizio d’estate l’occasione di un rituale a cui non so rinunciare: io, nel giorno più lungo dell’anno devo andare a salutare il sole prima che vada giù; perché? perché così, perché mi sembra che vada fatto. Per questo motivo quel giorno al tramonto ero per le creuze di Genova, alto sopra i primi tetti, perso dietro le bisce di luce tra i vicoli. Ciò che ho visto, ciò che ho colto non era di per sé straordinario, lo è stata la congiunzione speciale delle cose. Non cercherò di descriverlo, non ci riuscirei, il momento in cui mi è parso di aver trovato il posto del mio lungo sogno. Dirò solo che mi sono letteralmente perso dentro un infinito di particolari e dall’insieme ne sono stato posseduto, catturato in un universo che il mio inconscio deve aver costruito per me. Particolari fissati in una certa luce, in un certo punto di vista: ornamenti decò in un palazzo mai prima notati e raggelanti come gli ornamenti di una grande cattedrale gotica; silenzi di fringuelli in una minuscola corte frastornata nel tramonto dal rosa e dall’arancio dei suoi muri; un terrazzo sotto una scarpata disseminato di oggetti consueti e un inquietante pergolato di vite millenaria sgorgante enorme da un anfratto del muro; un portone in tiepida penombra con un’antica fontana e il suo filo d’acqua; il mare in un certo punto incredibilmente sgombro di manufatti traguardato da una creuza in discesa ripidissima tra vecchie alte case; la dolce familiarità di rumori di cucina da un poggiolo aperto su una piccola piazza di porfido; un vecchio in un microbo di giardino che pota dalie e ne fa un mazzo per qualcuno, qualcuna. Come potrei descrivere ogni cosa e soprattutto renderla sensata? Forse è meglio che parli di me e di questa città di Genova, perché alla sera del 22 ci sono arrivato per una certa strada, una certa qual storia tra me e lei.

A Genova ci sono andato a studiare quando avevo diciottani e ci ho resistito non più di qualche mese.
Campagnolo di riviera, sono scappato dall’inconbente tristezza littoria della casa dello studente, dalle otto corsie di Corso Europa da passare e ripassare dribbblandone i frastuoni e le pervicacia diabolica degli automobilisti, che allora tanti così non li avevo visti neanche al cinema; né avevo mai sospettato la possibilità di tanti numeri di autobus, tanti binari di treno, tante puzze concomitanti all’unico luogo della mensa universitaria. Che allora era in via del Campo, vale a dire nel luogo elettivo dell’immaginazione erotica di quegli anni, gli anni in cui, per l’appunto, quella canzone lì di De André la si ascoltava nei juebox di certi bar equivoci o in certe serate fuori stagione sulla spiaggia, cantata dal migliore tra noi in fatto di fascino di vita e chissaché. Me ne scappai dall’incubo dei muri di cinta della Val Polcevera che celavano e porgevano, con un’improntitudine che mi sembrava blasfema, il potere soverchiante del capitale, la sua superba onnipotenza, sotto la forma degli immani macchinari e serbatoi e forni e tubi e ciminiere e ogni altro magrocongegno che, travalicando i confini, debordava per le case e le strade, la vista e i passi della Costa di Ruggine, Sanpierdarena Cornigliano Sestri Multedo. Da lì, furenti e incarogniti da una povertà ulteriore il prezzo del loro lavoro, una orrenda povertà di aria e di acqua e di luce, giungevano all’ombelico di tutta la faccenda, la conca di De Ferrari, gli operai che andavo a rimirare e a stimare le mattine di scirocco e di sciopero. Portavo a loro la mia bella faccia e un pedigree di accademici codardi e infingardi passati per l’arme assembleare. Loro fulminavano con sprezzanti ultimatum -così mi pareva di capire- nel criptico dialettale di ponente ogni pretesa di fratellanza.
Scappai per non naufragare nello sfascio oleoso della Val Bisagno e magari approdare per sfinimento in qualcuno dei milioni di vani tra via Gaeta e via Vesuvio, i vespai che galleggiano sulla città appoggiati a un teatro di cemento in bilico tra la follia e il miracolo, vertigine di sadismo impressionista dove mi sorprendevo di veder allignare tra baratri e picchi persino dei cuccioli della specie umana.
Deciso in quel tempo a fare la rivoluzione mi pareva che Genova fosse la meno adatta, già persa per ogni possibile futuro, irrecuperabile alla gioia. Me ne andai senza essere entrato dentro l’atrio di un palazzo, in una chiesa, in un giardino, men che meno in un vicolo che non fosse il solco segnato tra Balbi, Pre e Fossatello. A quel tempo non mi venne mai in mente di salire una creuza, scegliermi un punto di vista ulteriore. Me ne andai senza essere riuscito a stabilire una correlazione che non fosse un semplice gesto meccanico tra la materia di Genova e i suoi spiriti. Perché queste e le mille altre cose di quella città che sono quella città restano celate agli occhi ed ai pensieri che non siano stati addestrati ad una certa qual scienza del paesaggio interiore, ad un’acquiescienza saggia e fantasiosa che allora vidi senza riconoscere nei modi del guardare e del gesto di una gente che altrimenti non avrebbe avuto un senso per la vita. Stupido io a pensare che non ce l’avesse, due volte stupido, visto che adesso è, tutto sommato,
un dubbio che riguarda me.

Quando sono tornato -e parlo di più di dieci anni dopo- l’ho fatto per un uomo, al seguito di un amico che chiamerò con il suo soprannome di Titti. Da allora Genova e di Genova la casa di Titti in Castelletto, il suo giardino fronzuto, le creuze da lì si dipartono giù per i precipizi di luce d’ardesia verso il mare e su per i segreti girdini della collina, sono l’unica mia sosta, il porto franco di un materasso di lana dove posso finalmente dormir bene e ben sognare accolto da una protezione autorevole, da una pace potente. Ci sono dei luoghi e nei luoghi delle persone, che sono collocate fisicamente da una forza non abbastanza conosciuta in un punto strategico delle storie umane; sono luoghi e persone al limine, paragonabili nell’esperienza comune ad un poderoso centro gravitazionale che nell’universo stellato individua con preveggenza matematica la presenza di un buco nero, il secchio irreversibile della spazzatura universale. C’è un punto critico sull’orlo del gorgo che gli scienziati chiamano “orizzonte degli eventi”: il corpo che nel suo orbitare è attratto dalla immensa forza gravitazionale e ha in sorte di potersi accovacciare al cospetto di questo orizzonte, ha la mirabile fortuna di vivere sul limite tra il nulla e la normale amministrazione, in un tempo e uno spazio senza più dimensione corrente, senza la coerenza contingente di un prima e un dopo, di un qui e di un là. Le regole della fisica quotidiana non hanno più peso, ogni cosa è sospesa in un attimo e in un luogo infinitamente presenti, in una singolarità.
In modo approssimativamente identico c’è nella vita di ognuno almeno un luogo e una persona che funzionano da orizzonte degli eventi, in cui la nostra storia si impiglia ineluttabilmente e viene risucchiata in una dimensione egualmente impossibile e singolare. Quando ciò accade, ed avviene perché il vivere non è mai un cerchio perfetto, s’interrompe per noi l’orbita ben calcolata del senso comune. Le nostre albe e i meriggi e i tramonti si confondono; si obnubila l’orientamento dell’anima e il nostro andazzo si arresta. È questa l’unica vera sosta che ci è possibile, un luogo e un tempo di ristoro su cui gravitiamo a spese della forza dinamica di quella singolarità, fino a quando il destino geometrico del nostro navigare non ci riporta sulla rotta degli spazi e delle vicende consuete. Titti e la sua casa e tutt’intorno la città di Genova sono diventati casualmente e definitivamente per me la singolarità a cui approdo andando e venendo dal mio destino. È capitato per l’appunto per il caso, per le leggi, niente affatto estetiche e razionali, della fisica del vivere.
Arrivai la prima volta a Castelletto per l’ascensore di Caricamento, come è giusto che sia. Sera di tramontana e dalla Spianata mi resi conto di una cosa decisiva: Genova è la città più lucente e chiara del Mediterraneo. Le ardesie e la pietra serena, il porfido, riflettono e rimandano, filtrano per ogni possibile dove le luci delle ore e delle stagioni. Non c’è un buco, e un’ortensia o un geranio in quel buco, che all’ora prefissata non abbia la sua luce, mentre sempre nell’universo della città il chiarore è stordente e insieme blando, opalino, di una consistenza che ti fa capire che la luce è un lenimento. Arrivai alla casa di Titti, da lui portato per stradette e scalette, corti e fichi di cortile, terrapieni e scarpatelle, ortetti e giardini tutti costipati in una microgeografia dove è possibile perdersi mille volte in cento metri se non si ha l’anima predisposta agli arzigogoli dei pensieri genovesi, alle contorsioni labirintiche di un paesaggio urbano sovrapposto nei secoli a se stesso nella sfrontata ambizione di piegare lo scoglio e i suoi anfratti ad ogni uzzo umano.
E lì, dunque, per la prima volta dopo anni, feci un buon sonno tranquillo.
Da allora in quella casa molte cose di grande rilievo mi sono successe, e molte le ho fatte accadere io stesso in virtù di una sventatezza che altrove mi avrebbe ammazzato di debiti. E’ lì, per dire, che ho incontrato e lasciato mia moglie, avendo cura di fare la prima mossa nel giardino -e precisamente sdraiato supino sui petali di glicine- e la seconda arrembato alla porta di casa, senza nemmeno un gesto irrevocabile o finale, senza un addio, certo com’ero in ambedue i casi di una complicità solida di pietre. Di conseguenza è lì che ho incontrato il fiore delle mie amanti genovesi principesse, astrologanti, armatrici e via discorrendo. E a non più di cento metri in linea d’aria da quella casa me le son colte e sedotte (belle e cremose com’erano) in posizione eretta prona supina e sghimbescia, su e giù per le creuze a picco di mare, ansimando nel freddo di porfido delle scalinate patrizie, inforrati al caldo dei roseti di villa Grimaldi (figuriamoci l’afrore! E io me lo ricordo bene; ed è proprio come un profumo francese e più ancora sfottente). Ratelanti in spasimi silenti e giudiziosi sul paiolato di barche dall’alta prua dei liguri, disseminati per calette, moletti e spiaggettine di cui quella città è segretamente ricca già dal suo ombelico.
E poi ancora nel gran tavolo di cemento di quel giardino impalmato e pomodorato di Castelletto ho mangiato in compagnia di tutto il meglio dei mille anni di andirivieni portuale -aquarellisti latindi, transfughi della Capraia, cattedratici di altalenante prestigio, nobildonne bandite, diplomatici del sesto mondo, pastori di Barbagia, tranvieri con famiglia, architetti di inaudito successo, storici di composta sovversione, portuali in aristocratico distacco, metallurgici imbestialiti; la gran torta che la città avida e tollerante ha saputo impastare – ho straziato ben cotti lacerti di pecore arrostite proprio lì, nella fossa coperta di mirti scavata di lato al filare delle rose. E le pecore ce le andavamo a scannare belanti di persona negli ovili delle colline sardosuperbe di Creto, l’enclave dei Sardi raminghi dall’Isola per un tozzo di casa popolare e sospesi nei pascoli salati di mare come sonnambuli. Micenei, ecco com’erano e come pensavano quei pastori imbarcati per diventare metallurgici all’Italsider e tornati a vagare al primo sciopero i prativi in cerca di pietre per farsi un ovile e lì mettersi a vivere al secondo sciopero con solo i lumi delle mani stregate mungitrici formaggere.
Sicuro di potere farla franca, mi ci sono sbrodolato di struggimento in quella dolce casa, che è grande e ariosa di molte porte finestre e alti soffitti stuccati. Solo il sole meridiano le è precluso da una fronzutissima quercia nata e cresciuta tra le scarpate dei palazzi al bordo del gioco di bocce dell’adiacente Circolo Reduci Monte Grappa, baraccio schifoso di giocatori insudiciati dalle patrie battaglie, bestemmiatori delle loro stesse date fatali; eppure mai, mai che avessero levato una mano contro la quercia. Ma oriente e occidente la mirano. E lei se li gode munita di glicine e veranda. E alla sera ho guardato per non so quante volte -svagato, s’intende- il sole chiocciare ristretto tra il faro chiamato La Lanterna e gli scarichi bronzei delle navi in procinto (sempre in procinto come delinquenti le navi) di salpare le gomene dal molo passeggeri traghettanti. Chi andrà, chi non andrà stasera alla patria ichnusa? Non io, che bevendo del vino di riviera osservo dal balaustrato di ferro battuto ben più di quella spicciolata di navi, ma tutta l’intera chiarissima città, dolce di quell’albore persistente che nessuno, dico nessuno, dei delinquenti che la popolano e la governano e la vendono e la fottono, potrà mai abbruttire. Dato che non c’è modo di insozzare mille anni di luce d’ardesia con premurissima cura esposta unicamente al tramontano e da questo amata per l’eternità passata presente e a venire.