Troppi binari stamattina (1991)

Avevo il mio treno il mio scompartimento e, al finestrino in contromarcia, avevo il mio posto, il sedile che potevo scaldare solo io. Sempre. Partenza alle sette e diciotto e se avevo da comprare le sigarette il capostazione aspettava ancora un po’ e mi sbirciava di là dal binario grattandosi la cucuzza con la paletta del segnale. Primo binario tronco lato Ovest. Infinite volte; e non mi dispiaceva. Nel territorio franco di un treno in movimento venti minuti di viaggio sono bastanti a un sacco di cose importanti da fare, cose che mi sono messo da parte durante le mie giornate ed erano in qualche modo speciali e difficili da concepirsi se non per l’appunto nella velocità sconnessa e ferrosa di un vecchio treno locale.
È lì, incespicando su e giù con la penna, che ho scritto le lettere del furore e della pena alle mie donne, le ho prese e lasciate in due pagine e meno. Lì ho trovato il tempo giusto per decidermi in qualche pazzia, per accondiscendere a una mia segreta codardia. E ho conosciuto bene le stagioni nel movimento del sole all’uscita della prima galleria, quando a gennaio è appena un sentore in fondo al violetto del mare e ad aprile è già un caldo annegamento di riflessi sul finestrino. Ho imparato a decifrare il mare da lì, a saperlo indovinare dalla forma delle spume sulle strisciate d’onda sulla secca al largo di Vernazza, dai racapricci della risacca contro la massicciata di Monterosso. Sono cresciuto e sono invecchiato, ho masticato tutti i miei pensieri sul locale delle sette e diciotto, una realtà solida e tranquilla, imprescindibile e confortante come un’immagine materna.
Non sono un che chiacchera volentieri, ma ho avuto anche i miei passeggeri preferiti su quel convoglio. Negli anni, due o tre compagni di viaggio sono restati abbastanza in un sedile o nell’altro per divenirmi famigliari, in qualche modo vicini inconsapevoli deila mia vita. Poche parole, ma piccoli scambi di cortesie, sorrisi accondiscendenti alle pene di ciascuno, minute chiacchere di viaggiatori abitudinari per forza, ognuno prigioniero del quotidiano andare e venire senza la libertà vera di esserci. Ricordo sopra tutti Fregoso, il vecchio fotografo piccolo piccolo con la chierica di bianchi e fini capelli che ogni mattina andava ad aprire un negozietto a Monterosso. Un negozietto infimo, un buco davvero, scavato nella roccia dello scoglio che tiene il paese, con dentro poche cose del mestiere suo e una sedia dove lui passava il tempo a leggere e scrivere roba che non so in certi quaderni. Nella bella stagione la sedia stava fuori dalla porta, con sopra un ombrellone con la marca KodaK e lui a leggere e scrivere con un fazzoletto sulla testa pelata. Clienti non deve averne avuti molti, qualche comunione di paese, i turisti per le cartoline e i rulli di pellicola, ma molta gente si fermava sempre sotto quell’ombrellone, per vederlo scrivere o forse solo per starsene un poco all’ombra. Per un paio d’anni si é seduto davanti a me, nel posto al finestrino, ogni mattina mi ha sorriso e si è subito messo a trafficare con i suoi quaderni. Oppure a leggere un paio di giornali, e nel mentre li leggeva iniziava a ritagliarli con una forbicina che teneva infilata nella giacca, una giacca spigata grigia che gli durava da settembre a giugno.
Quella mattina, la mattina del gran casino, c’era appunto lui con me ad aspettare il treno sulla banchina. Strano che non fosse lì, già pronto come al solito. Era metà gennaio e c’era un freddo cane alle sette, era molto importante arrivare alla stazione e infilarsi subito sentro lo scompartimento ben riscaldato; faceva parte delle sicurezze elementari della vita. Nell’attesa battevamo dunque i piedi e ci scambiavamo i sorrisi imbarazzati di circostanza. Il treno non si vedeva. È stato l’altoparlante ad informarci di dieci minuti di ritardo e del cambiamento di binario. Doveva essere successo qualcosa per un’originalità del genere: era la prima volta da tempo immemorabile. Nell’altra banchina il treno non si era ancora fatto vivo all’ora annunciata e l’attesa cominciava ad essere seccante. Il vecchio fotografo, con un piccolo sorriso di scusa, si era aperto uno dei suoi quaderni e aveva iniziato a scrivere all’inpiedi, così, con i grossi guanti di lana calzati, facendo con la bocca nuvolette di vapore che andavano a sciogliersi sulla pagina aperta. Non avevamo più niente da dirci. Poi di nuovo l’altoparlante: ulteriore ritardo e nuovo cambio di binario. Merda, ora la cosa si era fatta pesante: c’era gente che stava perdendo il lavoro congelando su un marciapiedi. Rumoreggiando e ciabattando la spettabile clientela del locale delle sette e diciotto ha infilato ancora una volta il sottopassaggio, schierandosi avvilita davanti ad un altro binario vuoto; di capistazione e altro personale su cui sfogarsi nemmeno l’ombra. Quando è stato annunciato con frettolose scuse un altro piccolo ritardo e un cambio di binario ancora, il pendolariato era ormai in fiamme: bestemmie, minacce orrende, facce nere, consigli di guerra e depressione profondissima: erano ormai le otto passate. Per me, che non sono granché battagliero la cosa si stava risolvendo in una sorta di trance; non mi importava più ad essere indignato e peroccupato: avevo trovato qualcosa per trastullarmi: pensare a qualcosa di leggero e infinitamente lontano. Neppure avevo troppo freddo. Ingobbito nel mio giubbone me ne stavo a guardare il binario vuoto, il cono dell’altoparlante, la stazione che a me pareva ormai come deserta, piena soltanto di rumori e persone e cose irrimediabilmente irreali. Ricordavo. Come fanno, credo, i bambini, mi ero trovato un mazzetto di ricordi per farmi compagnia e c’ero finito dentro. Mi ero scelto le lettere scritte in tutti quegli anni nel treno che adesso non arrivava più. Non tutte e non tutti i destinatari, ma Cinzia, Elena, Roberto, Anna, Folegnani, Gisella, e poi chi? Loro, scelti a caso; e quello che a loro avevo scritto, assumendomi la responsabilità di illuderli, deluderli, accusarli, perdonarli. Loro che erano persi nel mondo da poco, da moltissimo tempo, e che in un certo altro tempo mi erano stati così vicini da costringermi alla distanza, alla cautela della scrittura. Ti amo Elena e il dirtelo è dolce e profuma questa mia penna bic. Ti ho amato ti ho amato Cinzia, e ora io voglio andare, è bene che io vada. Vorrei ricordarti Andrea che il mondo sta camminando senza il nostro permesso e io ti vedo fermo….
Ricordo solo bene che è stato il piccolo vecchio Fregoso a darmi un leggero strattone al braccio, come a destarmi. L’ho guardato per interrogarlo sulla sua indebita interruzione e nel farlo la banchina mi pareva ancora troppo vuota. Lui mi ha sorriso e continuando a tenermi per il braccio -dolce e deciso, è come se lo sentissi adesso- mi ha portato ancora giù per il sottopassaggio. “C’è stato ancora un cambiamento, ma vedrà, è proprio l’ultimo, almeno per stamattina.” Così mi ha sussurrato appoggiando quasi il suo piccolo viso al mio orecchio.
E c’era un treno al nuovo binario, infatti, pronto per partire; il tempo di salire e già era in movimento. Destato da quella specie di trance, non ancora del tutto presente, mi ero appoggiato al finestrino guardando soprapensiero il paesaggio; di fronte a me il piccolo fotografo stava già trafficando con i suoi quaderni. Sentivo senza capirlo che c’era qualcosa di strano, qualcosa di molto singolare in quella mattina, nel treno che stava adesso correndo.
Ma si! Non è il mio paesaggio questo, questa non è la scarpata di Monasteroli, non abbiamo ancora passato il casello di Canneto. Ma che succede? mi chiedo senza riuscire ad emergere del tutto da quel mio abbandono. Abbiamo sbagliato treno è quello che cerco di dire al vecchio seduto davanti a me, ma non son sicuro di avere parlato; forse era solo un’annotazione mentale, una constatazione rivolta a me stesso, al corso dei miei pensieri. E Fregoso solleva la sua testolina dal quaderno e mi sorride, piano piano come a un ragazzo che si sia meravigliato di qualcosa di assolutamente banale. Sorrido anch’io e do un
primo sguardo d’assieme allo scompartimento che, adesso lo noto, è un po’ più vecchio di quelli soliti. Di fianco a Fregoso c’è Anna che mi sorride e mi fa ‘ciao’ con il suo solito muovere dolce di labbra. Al mio fianco una mano si appoggia quasi impercettibile alla mia spalla; mi giro a guardare ed Elena tira su col naso -quanto freddo Elena io e te su per i boschi di gennaio a cercarci un sentiero tra la neve, a cercare un posto per noi- tira su col naso e abbassa gli occhi. E ci sono altre facce, altre sagome che si stanno muovendo. Sento ancora un ‘ciao’, lo riconosco; e quello laggiù in fondo che mi sbircia intimidito, non è Folegnani?
Chiudo gli occhi. Sono stanco, mi piacerebbe dormire un poco; mi piacerebbe moltissimo appoggiare la mia testa sulla spalla di… Sulla spalla di chi? Sono tutti qui, mi pare. No, non tutti, ma ce n’è abbastanza per confonderti, troppi per una sola mattina, forse anche per una sola vita.
Il treno fischia ad una piccola stazione che si dilegua prima che io possa capire se la conosco. Fregoso si è ficcato dentro il suo quaderno. C’è un sacco di gente intorno a me che ha iniziato a conversare, a farmi domande, a rivolgersele tra loro. Stanno parlando tutti assieme ed io comincio a non capire più niente. Forse vorrei stare un po’ nel corridoio, aprire un finestrino e gelarmi d’aria. Ma non ho la forza di alzarmi. Non ne ho nemmeno il coraggio, ad essere sinceri.