I giorni della merla (5 marzo 2010)

Eccoli qua i giorni della Merla: è arrivato il tempo della tramontana nera. Sempre, tutti gli anni; e l’effetto serra non è riuscito ancora a metterci le mani sopra. Per l’Epifania si sobbolle nel calore dello scirocco tunisino, ma la notte che gira la luna di gennaio, basta star svegli fino alle due, alle tre, e la vedi arrivare. La merla, bruna come un’ombra nell’ombra, sui cavalloni del vento del nord.
E prima ancora di costatarlo con i tuoi occhi nel barluccicare del calo di luna, senti vibrare sul filo dell’aria sulla schiena che il mare sta prendendo a incaponirsi in una controcorrente improvvisa; guardi, e vedi che si arriccia, e si distende, e si arriccia ancora a traverso. Come se la Merla avesse preso a raderlo a contropelo a tradimento. E passando radesse anche te. Sui costoni del Bardellone, e ancora oltre, a est, sopra la rocca di Corniglia, le bave di vapore freddo si aggrumano e fanno fronte. L’indomani mattina, prima ancora che faccia luce piena, il fronte è diventato muro, e il muro si porterà al centro dell’orizzonte di meridione, e lì prenderà a reggere la guerra con i venti del sud est di Grecale e del nord ovest di Francia. La guerra durerà sette giorni, e ci saranno non meno di tre battaglie per giorno, e fino all’ultima, quella del mezzogiorno che porterà lo scirocco dalla Tripolitania, sulla costiera regnerà l’oscurità della Merla, e sul mare solo stupende luci di tragedia.
Ma questa notte intanto, già a tre, quattro braccia sotto il pelo dell’acqua, dove ancora governano le consuete correnti rimaste dall’autunno, lì, dove c’è calma e costanza, si radunano gli ultimi sciami dell’acciuga, troppo attardati a ingrassare nelle tiepide piatte d’autunno per aver sentito per tempo l’annuncio della Merla e aver già preso la via per il Golfo del Leone. Per tutta la notte, nel lampo di schiuma che si infiamma ratto al passaggio della squadriglia di tonnetti che vigila da giorni in attesa della notte propizia, si vedono le acciughe gonfiare a palla, lameggiare sotto la luna, e distendersi, filare come olio sul vetro, per poi tornare a radunarsi nel torbido cumulo di tenere anime di carne. Che è tutto quello che sono.
Se vuoi mettere un po’ di acciughe sotto sale, questa è la notte buona, l’ultima. Finalmente scossi dal gelo improvviso, già l’indomani gli sciami prenderanno la strada del mare aperto, venti, trenta miglia al giorno, buoni solo per i pescherecci d’alto bordo, quelli elettronici degli spagnoli e dei siciliani. Sì, che vuoi prendertele un po’ d’acciughe. Vedere di farne almeno un bariletto che duri fino al ritorno degli sciami; che ce ne sia ancora un po’ per quando ricomincia a fare caldo, e non dover strane senza proprio a maggio, quando l’estate ti chiama e non ti viene più gusto di niente, e hai solo sete di susine verdi e fame solo di un pezzo di pane con sopra un’acciuga e un po’ d’olio. Olio dei tuoi zii o dei tuoi cugini, susine degli orti inforrati, pane del forno della Disbe, acciuga delle ultime tue. C’è questo mistero, che l’acciuga salata ti scalda d’inverno e ti rinfresca l’estate. C’è questo mistero, che sei attaccato a questo cibo miserabile come alla poppa di tua madre. C’è questo mistero, che ti faresti bruciare lo stomaco e morire di cancro a settant’anni come tuo padre, pur di saper fare come lui. Che a mezzogiorno, per tutto l’inverno fino al bollimento del Corpus Domini, si portava un pane, il fiasco del vino e il bariletto su uno sgabello al sole, e mangiava così. Pescava un’acciuga dalla salamoia, la scuoteva del grosso del sale sul bordo della panca, e se la metteva tra i denti intera. E un morso dal pane e un sorso dal fiasco. Con le spalle al mare, sempre, e gli occhi sulle piane della collina e i pini del crinale. A non guardare niente, che aveva già visto tutto prima che io mi alzassi da letto. Che forse aveva già visto tutto prima di diventare uomo. Che forse non aveva visto mai niente e non gli interessava vedere niente. Altra stoffa d’uomo, altra tempra d’ignoranza.
Ma intanto, se voglio le mie acciughe, questa è la notte. E è la notte che qui tutti quanti vogliono le loro acciughe. Tutti quelli che ancora sanno alare un barchino in mare, tutti quelli che hanno una bombola di butano e una lampada a gas, una decina di metri di rete a grembo. Tutti quelli che hanno avuto un padre che si metteva in bocca le acciughe intere. Tutti quelli che hanno avuto un padre che forse aveva visto tutto e forse niente, ma almeno ha lasciato ai figli un barchino e un po’ di rete ancora ben tessuta. E siamo tutti qui, stipati alla marina, a ingombrare i moletti e le passerelle come se allo scoccare della mezzanotte qualche ente sovranazionale avesse inaugurato la Fiera Universale della Pesca all’Acciuga di Costa. Eccoci. Sferzati, abbattuti, rintronati dall’aria della Merla, con benestante oculatezza calzati e vestiti con le varianti più attuali del professionismo polare, più e meglio attrezzati dei fiocinatori dei banchi di Terranova. Eccoci, figli della Riviera, nipoti della miseria, pronipoti degli ominidi silvestri che adoravano il Dio Mare e ci stavano alla larga più che dal fulmine. Eccoci, figli del sacrificio e dell’ignoranza, spersi nel mondo da avvocati matrimonialisti, commercianti di alimentari, profittatori finanziari, impiegati del catasto, operai ultra cassintegrati, nullafacenti di equivoca rendita, titolari di bed & breakfast panoramici. Tutti operanti altrove, altrove accampati con i loro affari, le loro tribolazioni e i loro amori, ma qui residenti per principio, perché non essere più del paese è l’unico tradimento intollerabile, l’ultima fedeltà che ci può preservare dall’inferno in terra. Eccoci, convenuti al fischio della Merla, arrivati per tempo alle vecchie case, discesi nelle antiche cantine a ritrovare ciò che è stato lasciato in buon ordine per questa notte. Eccoci, a salutarci tra noi come fratelli. Perlopiù fratelli coltelli, come autorevolmente ci è stato premonito dalla tradizione dei nostri vecchi; che si sono accoltellati tra fratelli, generazione dopo generazione, per una pianta d’olivo, mezzo filare di vigna, un quarto di muro malamente ereditati. Ma come fratelli siamo, coltelli o non coltelli, in questa notte che ci darà o non ci darà l’annuale sigillo della nostra virilità, l’attestato che, nonostante la vita, siamo ancora uomini di Riviera, e la poca fiducia che i nostri padri hanno riposto nella loro prole è stata fatta fruttificare, e ora ha solo da essere messa all’ennesima prova. Come fratelli ci parliamo di niente, e intanto diamo un’occhiata l’uno all’attrezzatura dell’altro, e poi ci scambiamo stupidi consigli e termos di caffè corretto alla Sambuca con termos di vino cotto nel garofano. Come fratelli cerchiamo di mettere in moto i nostri barchini evitando di dare a vedere le nostre incertezze su un motore che abbiamo fatto mettere a posto da un altro, dall’unico meccanico del paese che ancora si prende la briga di fare questi lavoretti, e ha messo a punto i motori di tutti quanti. O forse non ne ha messo a punto nessuno, visto che la notte si sta ingolfando di spari e spasmi e rutti da due cavalli e mezzo in su, e su ogni cosa intorno agli approdi comincia a gravare la volubile cortina dei fumi delle mancate combustioni, inquietanti e policromi attorno ai lampioni. Come fratelli prendiamo alla fine il largo tutti assieme, non troppo distanti, non troppo appiccicati, a portata di voce, a portata di insulto alla prima mossa falsa.
Pesca all’acciuga nella notte tra il 19 e il 20 gennaio di quest’anno, prima tra le sei della Merla.
A mezzo miglio, non un passo più in là, accendiamo le lampare. Una chiazza di lumi sull’acqua nera, una processione senza il Santissimo, un corteo funebre alla moda vichinga. La lampara penetra nell’abisso, e nel suo cono, che si allarga per dieci, dodici metri fino a dileguarsi nelle fosforescenze indistinte, caliamo le reti. E aspettiamo. Aspettiamo che la stupida acciuga venga a godersi questo sole da quattro soldi di butano. Inaspettato, innaturale, fedifrago, ma pur sempre sole. Ci consoliamo nel considerare che ciò che ci rimane dell’antica arte nel calare del grembo, quel gesto largo e prudente che dispone la rete sull’acqua in perfetta sintonia con il filo della corrente, uno scialle morbidamente adagiato sulle intime forme dello specchio di mare, ci sembra ancora un bel gesto, ed efficace, e unico e distintivo. Ci consola il sibilo delicato della maglia nell’aria, il plok dei galleggianti, il bisbigliare della rete che si fa grembo. E aspettiamo. E fumiamo, e beviamo, e ruttiamo l’alito caldo della cena mal digerita nell’aria gelata, e ogni barca ha il suo alone di vapori che si porta appresso, nel suo lento muovere, come un cinghiale porta la sua nuvola di tafani. E aspettiamo. Navigando con il timone legato, all’andatura di mezzo miglio all’ora, se il motore è buono anche meno. E preghiamo le buonanime di nostro padre, e del padre di nostro padre, e del padre del padre del padre, se c’è mai stato, che non ci facciano sfigurare, che per una volta ancora ci accordino il loro neghittoso beneplacito. Passando sopra i nostri tradimenti e le nostre ignavie, l’inconcludenza e la miseria del nostro benessere, ci concedano almeno un paio dio secchi d’acciuga. E arriva. Nell’ora più nera, al colmo dello sfinimento da assideramento, quando è finito il caffè già da un pezzo e i pacchetti di sigarette galleggiano morti sul paiolato, senti vibrare i galleggianti, tinnire la sagola sul montante dell’arganetto, palpitare il fascio di luce su un sommuoversi di leggerissima corrente. Senti, distinto, un ansimare di bollicine, un respirare di sciame. E l’acciuga s’avventa sulla rete, si insinua tra le maglie a frotte, a famiglie, gli stormi ripiegano a capofitto, rimontano, si intrecciano, si incantano a decine, centinaia, le bocche dentute sul filo. Ribolle, sotto il sole a butano, la pesca. Né buona, né grama. Quanto basta per dire che anche quest’anno mi farò il mio bariletto. Come e sempre successo, del resto, nonostante tutti i patemi. Perché quella della prima notte della Merla è una grazia che non mi si nega, il generoso perdono che spetta a tutti quelli che sono rimasti residenti, renitenti a sparire nelle loro vite, persistenti nell’abitudine e nel sacro che nell’abitudine continua a covare. Issiamo la rete un filo prima del chiaro dell’alba; all’unisono, tutti quanti con un colpetto di argano, perché la luce del giorno farebbe impazzire le moriture, e la carne ne risentirebbe. E tutti insieme si spengono i lumi delle lampare; nel chiaroscuro ognuno spoglia la sua rete, e è come uno sgranare di rosari. Una preghiera ripetuta a memoria da vecchie beghine puzzolenti.
Sì, ci cova del sacro in questa notte, in queste due secchiate di pescato, in questo riguadagnare la riva da sonnambuli, nel mugugnare quelle tre, quattro parole tra noi, che pur sappiamo di essere quelle merde che siamo, ma ancora finché non si alza bene il sole, restiamo pescatori della notte della Merla. Nessuno di noi crede più in Dio. Non ci credono nemmeno quelli che vedi alle feste grandi entrare in chiesa con moglie e figli, con la Golf parcheggiata in sosta vietata, col pensiero turgido dei ravioli che le loro vecchie madri, vedove dal giorno che hanno partorito, hanno preparato per loro, per il figlio messo bene che è tornato per l’Assunta a graziarle di una visitina e di una mangiata. Ma quando, nel buio della cantina, mi siedo sullo sgabello che già fu di mio padre e del padre di mio padre, con davanti il bariletto, alla mia destra il secchio pieno di acciughe, alla mia sinistra il sacco del sale, e mi metto a sviscerare il pesce con un colpo d’unghia, a salarlo, a deporlo nell’ordine perfetto che dovrà tenere da qui fino a quando lo riesumerò per mettermelo in bocca, ecco, quando mi vedo e mi sento fare questo lavoro infame zozzo, allora so che un Dio ci deve essere pur stato. Un tempo.