Il lavoro dell’artista

Bello sarà anche bello ‘sro Salvator Mundi, a parte quel sorrisino maliziosetto da Gioconda che magari non si addice quel che al profeta crocefisso, ma fosse anche che più bello non si può, per me non è niente, niente di niente, eccezione fatta naturalmente per una notizia curiosa, che due tizi se lo sono scambiati per 400 milioni, buon pro. Per me non vale un centesimo, no se quel Salvator Mundi è un‘opera d’arte, se invece è un’operazione finanziaria allora vedo che vale 400 milioni. Oggi, domani si vedrà, il bello della speculazione è che è una scommessa. Il bello invece dell’arte plastica e delle sue opere è che è bellezza da vedere, da toccare, a volte anche da ascoltare e da annusare, e sempre da godere. La bellezza non è un lusso, è una necessità, tutti quanti gli umani, e forse anche gli animali, hanno bisogno di bellezza e di godere della bellezza come del pane, e vanno cercando il gesto di bellezza, l’opera d’arte, come cercano il pane. Da quando si è cominciato a dipingere le caverne l’artista è tale e quale un fornaio, il suo lavoro è nutrire di bellezza quanta più gente possibile, un  popolo intero addirittura. Già, anche se costa più del pane, ma in certe contingenze è capitato che costasse anche meno, neanche il popolo più derelitto ne ha potuto fare a meno. Non solo i castelli, i palazzi e le cappelle dunque, ma le chiese pievane, le chiese del popolo, i bargelli, le podesterie, i mercati, tutti i loghi pubblici sono stati per millenni luoghi di bellezza, adornati delle sue opere, e la gran parte se le pagava il popolo, togliendosi, letteralmente, il pane di bocca. E il popolo si godeva Giotto e Antonello e Leonardo e Brunelleschi finché ne aveva voglia, a gratis, era roba sua o a sua disposizione. Godeva, si educava, imparava. Questa roba si chiama funzione sociale dell’arte, e è una storia durata fino al secolo scorso, fino alle grandi rivoluzioni, comprese le dittature, ha messo infinitamente più arte, buona arte, a disposizione del popolo il fascismo della Repubblica. Adesso è finita, l’artista lavora per il gallerista, il gallerista vende al collezionista, il collezionista se l’appende al muro e se la gode, ma se ha speso parecchio, finisce per ficcare la bellezza in una banca e aspetta di farci l’affare. Fatti e affari loro, il popolo, e il sottoscritto, non c’entriamo niente. A parte le opere d’arte di strada, ma hanno già trovato il modo di staccarle dai muri e portarle in galleria a disposizione dei collezionisti ecc. ecc. così un tempo l’artista era un membro stimato e amati dalla collettività, oltreché dai suoi mecenati, ne era parte eccellente, adesso per la collettività non è più niente, ma esiste per i fondi di investimento, per le assicurazioni, per gli speculatori. Magari, qualora esistessero ancora artisti in vita, dovrebbero pensarci su.

Il secolo XIX, 19 novembre 2017