Il Salento

Ci vado da vent’anni, ci vado perché per quello che ne so non c’è altro posto al mondo così intensamente tragico e bello da non darmi nostalgia della mia terra, ci vado anche se per arrivarci ci metto il doppio del tempo che impiegherei per una qualunque barriera corallina o capitale culturale, ci vado perché lì ho gli amici più antichi e le amicizie più generose, e ci sono andato anche questa Pasqua, ho voluto arrivarci in bicicletta per poterne prendere atto con la giusta lentezza, ho preso la rincorsa su dalla Murgia e sono sceso fin giù a Otranto. Il Salento. Quante cose sono cambiate in questi vent’anni in quella terra dove le ere e le epoche si impilano una sull’altra a vista e il peso dell’una grava sull’altra con inesorabile fissità tolemaica. Quanto turismo in più, quanti B&B e agriturismi e ristoranti e enoteche e musiche e cinesi e inglesi, quante masserie abbandonate trasformate in fortini della legione straniera lombarda, quante marine selvatiche trasformate marine esclusive. Ma anche quanti uomini e donne giovani  e nuovi che fanno le cose dopo averle pensate, e ficcano cunei nella fissità minerale, si caricano dell’abbandono, schifano la futilità e con le loro mani testimoniano l’utile bellezza del necessario. Ma andando in bicicletta, sfogliando le strade più interiori e più belle, a traverso di iperbolici millenari uliveti  e lungo costiere di struggente oceanicità, vedi quello che hai sempre visto e ritenuto l’ergastolo di ogni buona volontà salentina, la corona di spine senza fine dei rifiuti accumulati ai margini. Ogni deiezione organica e minerale, lerciume di piccola industria e grande famiglia, lascito di artigiani in nero e buoni padri di famiglia, purché tossico, velenoso, fetido, rivoltante. E è sempre così e non cambia mai, e ti si avvelena lo sguardo, e il cuore e l’intelligenza, e pensi che sono animali e peggio degli animali. E so che a pensarlo sono animale anch’io se non peggio, ma quando inciampo nella reiterata protesta della brava gente di Melendugno divenuta famosa nel mondo per aver opposto i propri bambini all’espianto di duecento delle molte migliaia di ulivi secolari non curati o poco curati per il nullo o scarso rendimento che danno loro, mi viene l’ovvia considerazione del perché non risulta che abbiano mai opposto i propri figli alla legione di mezzi che insozzano, deturpano,  avvelenano molto, ma molto di più di un oleodotto sotterraneo la loro terra madre che così tanto amano. E non trovo ragionevole risposta, e mi incattivisco, perché alla fine è il popolo che si incarica di massacrare il popolo.

Il Secolo XIX, 23 aprile 2017