Gorino

È passata una settimana, è successo di tutto, il terremoto, la Clinton, Mosul, ieri il viadotto, ma è ancora lì che non mi va da nessuna parte l’immagine dei bambinetti ridenti e delle mamme accudenti che presidiano la barricata eretta dai patrioti di Gorino per resistere all’attacco di quelli che solo all’ingannevole apparenza erano una dozzina di donne e un pugno di bambini, ma nella loro interiore natura di verità altro non erano che l’avanguardia dell’invasione aliena, la morte nera venuta dallo spazio, il virus nato in provetta per annientare la brava gente del Delta e quel poco che ancora resta dell’altra brava gente d’Europa. Quell’immagine non trova una sistemazione, non riesco a infilarla da nessuna parte, non è archiviabile, è troppo definita, onesta, linda, nel descrivere la tragedia della miseria, la miseria morale, la miseria intellettuale, del mio popolo. Faccio fatica a digerire il fatto, ma il fatto è che quello, quello di Gorino, è il mio popolo. Lo è senza dover scomodare concetti complicati, astratti, retorici, lo è persino fisicamente, tattilmente, visto che la mia gente, i miserabili contadini di Val di Magra del 1951, si è presa sul groppone i padri e le madri e i nonni di quella gente, li ha nutriti, li ha vestiti, li ha provveduti di un tetto e di un lavoro, tutto quanto miserabile certo, e se li è fatti fratelli. Fratelli e con il tempo addirittura consorti; anche se quando sono arrivati facevano più schifo che pietà da tanto che erano conci male, non uno solo che avesse qualcosa oltre alle pezze al culo, non uno che si capisse quello che diceva, tutti a parlare quel loro ostrogoto. I polesani, uno di loro è mio zio, l’uomo più buono che ho mai conosciuto, anche se ci metto ancora un po’ a capirlo. I miei hanno spartito quel poco che c’era, col tempo sono stati ricambiati. E adesso sono lì i polesani, i monopolisti della vongola, gli aristocratici della pesca di frodo, ritratti sulla barricata inespugnabile della loro miserabile agiatezza. Come faccio a mettere via questa immagine?

Il Secolo XIX, 31 ottobre 2016