Leggere e parlare

Nei giorni scorsi la pagina Facebook di questo giornale ha dato la notizia di un padre di famiglia che, rimasto senza lavoro e senza casa, ha tentato di darsi fuoco nella piazza centrale di Sarzana. Tre minuti dopo l’inserimento della notizia era già apparso il primo commento sul tema “diamo le case agli stranieri e gli italiani si danno fuoco…” a cascata una valanga di altri per la stragrande maggioranza variazioni sul tema originale, fino a quando, passata qualche ora, un lettore ha fatto notare che, leggendo oltre al titolo anche il testo, si evinceva che il padre di famiglia disperato era un cittadino marocchino; a quel punto il post si è rivelato di nessun interesse e si è dissolto nel nulla. Nessuna sorpresa naturalmente. Il popolo del net va veloce e non ha tempo per leggere tutto quanto, ne ha di tempo appena a sufficienza per scrivere. Leggere non solo richiede un notevole dispendio di tempo, ma è anche attività complessa, ad esempio richiede un certo ingrato impegno a capire ciò che si legge, e risulta in definitiva un’attività noiosa; diversamente scrivere, scrivere quello che si pensa, quello che si sente, quello che si prova, e dunque nell’accezione comune quello che si sa, è attività immediata, altamente eccitante e gratificante. Manifestare, espellere, rigurgitare, prolassare, quello che uno ha dentro, quello che gli rode, che lo entusiasma, lo appassiona, lo sconvolge, in modo diretto, senza intermediazioni, senza controlli e supervisioni, e finalmente senza nemmeno nessuno che sta lì a correggere gli errori di sintassi e ortografia, è la grande conquista del popolo nell’era digitale. L’unica conquista a ben vedere; di certo la globalizzazione digitale non ha reso il popolo più ricco, né più sano e tantomeno più istruito. E non gli ha insegnato a leggere, a informarsi per sapere e dunque capire, ma a scrivere sì, perlomeno a scrivere come è uso a parlare. E il popolo si sente per questo più libero; e in verità lo è, libero se non altro di gingillarsi quanto gli pare e piace con la stupidità che i grandi gestori del net gli assegnano per sua stessa natura.

Il Secolo XIX, 31 luglio 2016