La fine del ‘900

Nella stanza dove lavoro, sulla parete che ho davanti quando cerco di farlo, sono appese le immagini sacre dei miei penati, le mie divinità domestiche. Accanto al ritratto dell’Anita, la matriarca che mi ha cresciuto, c’è una vecchia, ormai antica, fotografia di gruppo; sono una cinquantina di uomini, giovani uomini perlopiù, facce nere, pantaloni di tela grigiastri, camice e giacchette stazzonate. Posano sotto un carroponte, il primo carroponte entrato in servizio nel porto di Genova, è il 1904. Guardano eretti, teste alte, figure protese in avanti, non sembra che abbiano davanti un fotografo con la sua camera, ma il ‘900 tutto quanto, e l’avvenire dell’universo intero. Sono i carbuné, sono la Pietro Chiesa, l’età del del carbone, la civiltà del lavoro che riscatta, l’orgoglio degli uomini liberi, uomini in compagna, il progresso dell’umanità. Quell’anno sono in 4000, hanno una cucina che dà da mangiare a tutti quanti, ho visto le caldaie della minestra, ci si può annegare dentro, quando a settembre di quell’anno aderiranno al primo sciopero generale mai proclamato in Europa, a quella cucina si sfameranno i lavoratori di tutta Genova. I carbuné, i signori della fatica, i principi ballerini. Danzavano sulle assi flessibili delle passerelle perché l’abbrivio della loro danza non li faceva schiattare sotto il quintale di carbone che portavano sulle spalle; in porto non c’era lavoro di maggiore fatica, non c’era modo migliore di farlo che non fosse il loro, la regalità della classe operaia. In quella fotografia nel mezzo del gruppo c’è un uomo che porta gli occhiali, sono sbaffati di fuliggine; lusso singolare, non serve vederci molto per fare il carbuné, serve di più un corpo che sa sentire e capire la materia e il suo peso. Mi piacerebbe essere stato quell’uomo, avere la sua grazia, la sua forza, lavorare dodici ore e avere voglia di mettermi a leggere. Ora sta per arrivare l’ultima nave, poi in tutto il porto non ci sarà più un pezzo di carbone né un carbuné, mai più. È finito il ‘900 e anche un po’ in ritardo. Sarebbe bello che non fosse finito il tempo del lavoro degli uomini liberi, della danza dei camalli ballerini.

Il secolo XIX, 5 giugno 2016