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Sono stato a Roma. Ora come ora andare a Roma è un gioco da ragazzi, e con tutto il rispetto per le giuste lotte dei nativi, l’Alta Velocità ha rivoluzionato la percezione del Paese e fatto un gran bene alla sua transitabilità, almeno per chi può permetterselo. È restarci a Roma che non è un gioco, ma questo si sa. Per non disturbare un tassista nell’ora di punta, sono andato a piedi dalla stazione Termini all’università La Sapienza, quartiere San Lorenzo, due chilometri. Ci ho messo un po’, Roma non è città veloce per nessuno, nemmeno per i pedoni, ho avuto modo di guardarmi attorno, cosa non consueta a Roma se non in stretta prossimità dei monumenti più salienti, e ho notato che non un metro quadro, un solo, unico metro quadro di muri, muraglie, facciate e passamani, sia di beni pubblici che privati, era salvo da uno o più strati di graffiti, segnature, tag, iscrizioni. Non una sola prova di street art, o qualcosa che ptesse sembrarlo, solo ludibrio. Mi è stato detto che è così ovunque, fino al di là del Tevere. Fa una certa impressione; alla vista è molto di più del degrado, appare come se la città fosse impestata da una malattia, una scrofola deturpante, un cancro della pelle. So che è così anche a Genova, ma non proprio così, non così definitivo, terminale; a Genova qua e là qualcosa è ancora salvo, a Roma sembra che sia passato l’angelo sterminatore, se è la capitale sembra la capitale di una nazione morente. Mi sono chiesto senza trovare risposta come potesse viverci con dignità chi ci vive, e sono in milioni, come quei milioni hanno potuto permettere che accadesse. Come a Genova, come altrove, basterebbe il modesto impiego di pattuglie notturne di polizia per un periodo limitato di tempo e la pazienza di dare un’occhiata a ciò che registrano le migliaia di telecamere disposte ovunque anche per questa ragione, basterebbe prenderne sul fatto una dozzina, basterebbe un giudice di turno disposto alla comminazione della pena alternativa della ripulitura forzata e immediata, e sono certissimo che sarebbe tutto finito. Volendo guarire.

Il Secolo XIX, 23 maggio 2016