Votare

Non vedo l’ora che arrivi il 17 aprile per andare a votare. Al referendum delle trivelle, tanto per capirci. Giuro che non so ancora come voterò, ma quello che è sicuro è che ci vado. Bramo dal desiderio di andarci, smanio nell’attesa di esprimermi al riguardo di una questione di grande interesse pubblico. Sono decenni che non mi sento così caldo in previsione di un voto che devo ancora esprimere, eccitato è il sentimento appropriato, credo che solo agli esordi della mia carriera di cittadino esercitante diritti attivi di voto mi sia sentito così, e a dire il vero devo darmi da fare per trovare il mio certificato elettorale visto che, come dire, ultimamente non è che avessi avuto tutta questa sprescia di metterlo sotto naso di un presidente di seggio. Lo ridico, non so ancora come voterò; da un lato tirar su petrolio in mezzo a quel poco che rimane di decente non mi sembra quella gran idea avveniristica, d’altro canto anche a sentir in questi giorni Romano Prodi, che più passano gli anni e più viene voglia di rimpiangerlo, mah, bisognerebbe pensarci più in dettaglio. Lo farò, per intanto quello che mi preme è di andare a votare; io, mia moglie, mio nipote più grande, mia cognata, mio suocero e mia sorella, tutti quanti ordinatamente in fila il diciassette a vedere di raggiungere il quorum, il capestro del cinquanta per cento più uno. Non sarà facile, sarà quasi impossibile, il nostro primo ministro Matteo Renzi e il suo partito hanno detto che loro a votare non ci vanno. E loro contano, lui conta più di tutto, lui sono milioni di posti di lavoro, lui sono meno tasse per tutti, lui è anche bello da starlo a vedere e interessante da starlo a sentire.
Ma c’è qualcosa di sporco, di sordido, di vile in un primo ministro o in un partito politico che invitano il popolo a non esercitare il diritto dovere di esprimere la propria volontà con il proprio voto. Non è puro e semplice disprezzo del sistema democratico, che non è proprio una bella cosa, ma disprezzo del popolo stesso, testa per testa, individuo per individuo, raziocinio per raziocinio. Quando il primo ministro e il suo partito dicono: questo è un referendum inutile, statevene a casa, non mettono una pietra sopra l’unico istituto di democrazia diretta di cui il popolo dispone, ma insinuano l’idea che l’astenersi dall’esprimere il proprio individuale giudizio sia di per sé una forma di esistenza in vita civile della persona. Boicottare l’istituto dell’elettorato attivo è porsi insieme contro il sistema e contro la dignità di ciascun cittadino.
Siccome ho i miei anni, non è la prima volta che mi imbatto in un boicottatore. Beh, il leggendario ’91, con Bettino Craxi, il grande statista postumo morto contumace,  che invitò al mare l’Italia intera. Gli andò male, la prima repubblica si dissolse e niente dell’Italia fu come prima. Col senno del poi magari era meglio lasciare il mondo così com’era, perché c’è sempre il modo di trasformare una vittoria del popolo in una sconfitta, è una specialità millenaria. Poi il 2005, referendum sulla procreazione assistita ricordate? Allora l’onore del vessillo dei boicottatori se lo caricò il principe della chiesa cardinal Ruini. E gli andò bene, il popolo non andò a votare e questo diniego fu proclamato vittoria popolare. Posso capirlo, Ruini intendo, posso ben immaginare che un cardinale della chiesa romana si sia fatto un’idea della democrazia popolare sui testi del concilio di Trento, che ricordi con nostalgica passione il popolo vandeano che incendia i simboli della democrazia negatrice dei diritti eterni di Dio e del suo Re, ma gli eletti del popolo che gli si misero dietro a processionare, quelli se non altro sono stati sanzionati nella loro demenza legislativa persino dalla Corte Costituzionale. E poi c’è il 2011, e il boicottatore allora fu Silvio Berlusconi, ancora in attesa di essere ricordato come grande statista e non ancora contumace, e disobbedendogli il popolo lo consegnò alla sua definitiva sconfitta.
E il diciassette di aprile la vedo brutta per la sovranità popolare. Lo so che non si può chiedere al popolo di far fuori il nostro primo ministro così, come se niente fosse. Perché se per caso il popolo preferisse non astenersi, e non trovasse così inutile esprimersi, questo è logico che andrà a succedere, non c’è faccia abbastanza sfrontata per incassare una sconfitta così personale e così diretta. E se del suo partito ormai non gliene può fregar di meno, in quell’uomo il popolo nutre le sue ultime, modeste aspettative. Così che può cedergli la propria dignità, persino quella, che deve aver più cara del sistema democratico che lascia da tempo ormai imputridirsi sotto i proprio occhi, in cambio di niente, solo di un  paio di ore di sonno in più.

Il Secolo XIX, 20 marzo 2016