Vino vegano

Giuro che ero sicuro che non ci avrei mai messo bocca, che su un argomento così delicato mi sarei astenuto dall’esercizio del mio spirito grossolano e più ancora avrei evitato con gran cura di esprimere giudizi, ma il fatto è che ieri sera in un ristorante, un localino eticamente orientato al meglio, mi hanno servito una bottiglia di vino vegano. E insomma, non ce la faccio a mantenere il buon proposito dopo ‘sto vino vegano. Rosso piceno vegano ventidue euro e cinquanta. Vegano? Ho interrogato puntando il dito sulla carta dei vini. Sissignore, vegano, ha risposto lestamente il tutor enogastronomico del locale. Cosa vuol dire vino vegano, ho voluto sapere, e ero veramente e sinceramente curioso di imparare qualcosa. Vino vegano vuol dire che è vegano, signore, che non ci sono sostanze animali e derivate da animali. Ah, bene, molto bene. A berlo il vino vegano faceva pietà, faceva talmente pietà che è stato lasciato al suo destino eticamente superiore in favore di un rosso piceno banalmente bio. Il vino bio è risultato un po’ meglio, un filino più rosso, un filino più piceno, un filino più vino. E mentre parcamente mi nutrivo alla parca etica mensa, mi sono trastullato a risolvere da me medesimo  l’arcano del vino vegano. Vigneti esenti da concimi di origine animale? Tipo stronzoli di cavallo così preziosi e cari all’agricoltura bio? Esenti pur tuttavia da urea, fertilizzante principe nell’agricoltura standard? L’urea è sospettabile non a torto di avere discendenze animali. Vinificazione non soggetta ad aggiunte di strutto, non contaminata da sudore umano, torchiatura a trazione meccanica non animale?  No, non so proprio. Forse tutte queste cose assieme, forse altre a me precluse. La dieta vegana è una scelta etica, di certo una fede, probabilmente una religione, non tutto può essere spiegato dalla ragionevolezza, non dalla fin troppo meccanica catena di causa ed effetto, non tutto è palese al profano. Certo, è una fede che chiede impegno, e portafoglio, ho constatato con il conto tra le mani, lievemente amareggiato dalla dura lex che impone al credente uno sforzo in più del miscredente. Il vino vegano costa un più del vino ateo, come l’acqua della fonte di Lourdes costa più dell’acqua del sindaco, ma quanto vale l’impegno di fede del vignaiolo vegano e dell’acquaiolo lourdesiano? Molto. E la salvezza che ne scaturisce? Impagabile. Ciò nondimeno, devo dirlo, non me ne sono uscito dal locale etico appagato, non dico satollo che è una brutta cosa e insalubre, ma come dire, illuminato, in pur piccola parte partecipe della fede. E per questo, e certamente ingiustificatamente, irritato. A tal punto irritato che avrei persino dato un morso a un vitello se ne avessi incontrato di abbastanza tenero e mansueto. Sia chiaro, io sono un vegetariano genetico, ovvero sono nato in un’epoca e in una classe sociale di poca carne; sono sicuro di essere stato il primo nella mia famiglia a cui è stato cotta una fettina. Per altro in modo curioso, su un foglio di carta oleata poggiata sopra la piastra della stufa economica. Non era male, mi ricordo; no, non era male, ma un  fatto raro, il più erano dei gran minestroni e zuppe e polente, alle feste grandi gallina lessa o coniglio nella teglia, l’ovetto per l’anemia, il gorgonzola perché con poco si insaporiva tanto pane. Un altro mondo, ma così sono rimasto, minestroni, zuppe e pinzimoni se volete farmi contento. Ma anche una bella cartata di acciughe fritte, non dico di no, per non parlare del sogno segreto di un grande loasso -un vero loasso, quello da tempo estinto-  messo nella teglia senza niente ma solo un filino d’olio, o, in extremis, con la febbre a quaranta, una tazza di brodo di cappone. Senz’altro. E mi sembra di star bene e di nutrirmi con piacere, perché è dell’umano il piacere come il dolore e lo è in modo diverso dal resto delle creature del Signore. Ma ora io scrivo da una campagna a vigne e vedo i miei vicini che stanno ancora lavorando con il trattore e è già buio e è da stamattina che sono dietro a ruspare i fossi e a rincalzare, e stasera a cena se ci sarà il minestrone ci vorranno dentro anche un bel pezzo di pancetta e dopo saranno contenti di una padellata di castrato. E mi sovviene che cinque milioni di anni or sono per scendere giù dagli alberi i nostri padri hanno dovuto mettere assieme alla sapida frutta selvatica milioni e milioni di insetti e vermi, le proteine disponibili nei trochi e sui rami, e una volta a terra, per mettere su un po’ di energie per potersela vedere con i mammiferi cacciatori di umanoidi hanno dovuto contendere con le iene e gli avvoltoi gli avanzi dei pasti dei cacciatori, un po’ di trippe e di ossi da rosicchiare. Tutto questo perché un giorno, come oggi, il fior fiore dei loro discendenti, potesse starsela a spassare a non far niente tutto il giorno, perché è questo che i miei vicini segretamente pensano del lavoro intellettuale e di concetto. E non dovendosela vedere con le tigri, i blocchi di marmo e il fango dei fossi, trastullarsi a succhiare un sedanino. Con abbastanza energie, queste sì, per poter magari pensare di salvare il Creato dall’ingordigia umana. Il lavoro sporco, quello che chiede le proteine animali, dette con palese blasfemia nobili, il lavoro sporco che si merita il cancro allo stomaco e il colesterolo a 300, a quel lavoro lì ci pensano gli altri, poco più che animali.

Il Secolo XIX, 13 marzo 2016