Pace e Guerra

Devo dire che quando qualche tempo fa il professor Panebianco fu contestato durante una sua lezione non ho palpitato un granché per il proditorio attacco alla sua libertà di pensiero e parola, ho la certezza che le sue libertà siano ben tutelate e promosse dal sistema pubblico di istruzione e da quello privato di informazione, e incidentali e fugaci turbative sarebbero da mettere ragionevolmente in conto come ovvie, ma ho invece sofferto per la pace, molto, molto sofferto. Perché mi sono preso la briga di andare un po’ a vedere oltre gli slogan e le immagini d’effetto contro la guerra cosa avevano da dire gli interruttori di pubblico ufficio in favore della pace. Niente, niente di ragionevolmente concreto voglio dire, di vero, di produttivo, nemmeno niente di creativo, ma solo quelle tre o quattro vecchie, buone parole shakerate e messe in fila in questo modo o quell’altro, a seconda di come gli vengono sulla lingua. Forse non è nemmeno colpa loro, magari non è questione di svogliatezza culturale, ma la paradossale impossibilità di descrivere la pace ai tempi correnti.
Oh, sulla guerra non ci sono problemi, è facile; la guerra non è mai la soluzione e ne abbiamo una scandalosa mole di prove provate e cogenti. Ma se la guerra non è la soluzione, se è ovvio che l’incendio non si spegne con il fuoco, come si accende la pace? Non in astratto, ma nella materia cruda della Libia, della Siria, dell’Iraq, dell’Europa –perché forse anche l’Europa ha una sua qualche guerra in corso a giudicare dalla quantità di pubbliche commesse di filo spinato- nella cruda e sanguinolenta materia dei popoli che la stanno patendo.
Con la diplomazia? Certo. Ma quale diplomazia, c’è una diplomazia che funzioni davvero, dove, quale? Se ne costituisca una nuova? Come, chi? E che cos’è la diplomazia al tempo dello Stato Islamico, che non è affatto sedicente, ma c’è, c’è là e là e là? Abbiamo qualcosa da trattare con lo Stato Islamico, qualcosa che possiamo dare e qualcosa che possiamo avere? Noi chi? Noi popoli oppressi dall’IS, o noi popoli minacciati dall’IS, o tutti i popoli insieme? C’è una qualche sottile differenza tra le opzioni, a meno che noi –noi chi?- non siamo per caso il Tutto, e il tutto non si riassuma nel solito, antico e pesante fardello dell’uomo bianco.
Con una poderosa azione internazionale di cooperazione economica e politica per stroncare in Africa e Medio Oriente  le  radici sociali e culturali della guerra? Sì, certamente sì. Si tratterà allora di decidere, ad esempio, di prendere almeno l’1% del PIL dell’Europa e investirlo in opere di pace e di bene. Si tratterà senz’altro di decidere, tanto per tagliare l’erba sotto i piedi alla guerra, che i grandi produttori e venditori di armi mondiali si redimano in costruttori e elargitori di ospedali, scuole, diritto del lavoro e riforme agrarie. Si tratterà allora di convincere i popoli d’Europa e d’America, il Tutto, a metterci del loro, ma ne hanno del loro? E se consultati -perché non è necessario esportare la democrazia nel Tutto, visto che c’è già- se democraticamente verranno chiamati a decidere, lo faranno di impoverirsi quel po’ necessario al Grande Piano di Pace? A tal proposito, L’Europa, ad esempio, ha appena venduto le sacrosante ragioni di autodeterminazione del popolo curdo alla Turchia in cambio di una solida barriera che tenga lontane le orde di rifugiati che premono alle sue frontiere, rifugiati che se le cose buttassero male, per noi, ci ciuccerebbero lo 0,1% del nostro PIL. I popoli d’Europa hanno qualcosa da eccepire al riguardo?  Oltretutto i curdi ci sono simpatici, sono i migliori combattenti sul campo contro lo Stato Islamico, li armiamo persino perché lo facciano con sempre maggiore efficacia, li armiamo e armiamo la Turchia.
Ora, credetemi, queste non sono obiezioni alla Pace, sono solo le prime considerazioni che mi vengono alla mente quando penso alla pace. Io sono un pacifista, ma quando espongo le mie considerazioni ai pacifisti mi sento rispondere: non sono io che devo rispondere, io non lo so come fare e non devo nemmeno saperlo, ci devono pensare loro, quelli che eleggiamo e paghiamo  perché governino il mondo. Loro hanno i professionisti delle soluzioni, loro hanno fatto il casino e loro devono risolverlo. Risposta sbagliata. Loro sì, hanno combinato questo spaventoso casino, ma non hanno nessuna soluzione. Loro, che poi sono i nostri, hanno generato uno stato elle cose, si sono fatti i demiurghi di un’epoca direi, senza soluzioni. Un’epoca che se non può sostenersi sulla guerra non può neppure darsi pace. Un’epoca affetta da una devastante sindrome autoimmune. A essere millenaristi potremmo trastullarci nella evenienza di una prossima fine del mondo, di questo mondo, ma il millenarismo non è più patrimonio di noialtri, il millenarismo ora è patrimonio ideologico dello Stato Islamico.

Il Secolo XIX, 6 marzo 2016