Romanzo popolare XXI secolo

Questa mattina mi son fatto l’ultima puntata della quarta stagione dei Sopranos. Dico questa mattina perché i titoli di coda sono passati mentre il pendolo batteva le tre. Sì, ho un  pendolo in casa, funziona da centocinquant’anni, basta oliarlo ogni tanto e quando capita portarlo dall’orologiaio, finché terrà bottega con la sua vista ottantenne; è bello, credetemi, che le cose durino nel tempo, affidabili, semplici, utili. Ma torniamo ai Soranos. Dunque, la seduta conclusasi alle tre antimeridiane è iniziata intorno alla mezzanotte, parlo di un’attività solitaria semi clandestina, e la mia coscienza è quasi a posto perché, come per ogni altra seduta, prima di coricarmi davanti alla tivù ho provveduto a mettere a letto tutta la famiglia assieme ai non pochi carichi pendenti della giornata. Tre ore? Sì, perché a me una puntata non mi basta, una sola puntata non mi mette che dell’ansia, ho bisogno di andare avanti nella storia, di navigare nella storia, tale e quale un bel romanzo che non è che puoi stare lì a leggere mezz’ora, appena il tempo di sistemarti dentro la storia che tac spegni la luce e è tutto finito. Preciso che sono un novellino delle serie tivù; ho lasciato passare dei decenni senza sapere cosa fossero, colpevolmente disinformato, le sedute hanno avuto inizio solo nello scorso anno, ma i potenti mezzi digitali favoriscono un solerte recupero del repertorio storico, è il caso dei Sopranos per l’appunto, e nello scorso anno ho potuto seguire con entusiasta profitto cinque serie complete. Cinque serie su una trentina disponibili è una scelta elitaria, come per la letteratura ho i miei gusti e non sono facili. Come per altre importanti cose della vita devo la scoperta delle serie tivù a un Lucignolo, un amico corrotto e felice; gliene sarò sempre grato, mi ha fatto parte del Grande Romanzo Popolare del XXI secolo. Questo sono le serie, la riedizione multimediale del romanzo ottocentesco d’appendice, il genere letterario frequentato da Dickens, da Ugo, da Dumas, da Stevenson; storie infinite, narrazioni che fluiscono lente e poderose, grandi temi, grandi personaggi, varietà di caratteri, gran cura dei particolari. Come i Sopranos. Mi manca ancora la quinta e ultima stagione; dovrò aspettare ancora non si sa quando prima averla disponibile, e non so neppure se allora sarà contento, ho il debilitante sospetto di avere intuito come andrà a finire, temo per i suoi autori, che non abbiano la forza di concludere magnificamente come hanno fin qui fatto. Voglio sperare che i lettori sappiano di cosa parlo, conoscano questa mirabile serie e la apprezzino. Comunque, brevemente, è la storia di una famiglia mafiosa del New Jersey tra gli anni ’90 del secolo passato e i primi di questo. Attenzione, non è una storia sulla scia de Il Padrino e correlati. Non è un’epopea classica, è persino priva di un’epica apparente. È una storia della quotidianità. Le gioie, i dolori, le noie e le soddisfazioni della famiglia mafiosa dei Soprano. Quotidiana ma non semplice. Perché nella vita, compresa la vita di un mafioso, niente è facile e niente è piano, scontato, banale. Fare a pezzi uno infame, riscuotere il pizzo, vedersela con le fragili psicologie delle spogliarelliste del locale di copertura, trattare con le invadenze della cosca limitrofa, le ansie dell’amatissima moglie, la morte improvvisa di un amico fraterno, i brufolosi, disarmanti silenzi di un figlio adolescente e le vivacità eversive di una intelligente e sensibile figlia, le bizzarrie senili di quella santa donna della madre, l’inesausta domanda affettiva dell’amante, i problemi di droga dell’erede designato al comando, la difficoltà a gestire gli impulsi più bestiali, la giustizia sempre alle calcagna. Te lo credo che Tony, il capobastone, è in terapia per la depressione e le crisi di panico. Per parlare solo del personaggio principale. Tutto questo, e l’oceano di storie laterali, non fanno di questa serie una cosuccia da caratteristi, macchiette e scene di costume, ma è stata scritta e recitata e diretta con vera passione per il reale, con sguardo intenso e piano sulle circostanze, i fatti e le menti. Il giudizio è dello spettatore, sua la responsabilità di considerare e discernere. Io ad esempio ne ho tratto una lezione di agghiacciante intensità sull’attuale, sul qui. E cioè che la società criminale, e la comunità regolata dall’esercizio del crimine, è fortemente normativa, rassicurante, persino appagante, più di ogni altra istituzione sociale dell’oggi. Basta non mettere i bastoni tra le ruote, fare i guastafeste, gufare contro, chiedere più di quanto stabilito. Se ognuno sta al suo posto ce n’è per tutti, di reddito, di sicurezza, di sanità, di istruzione. Se non si discute del potere, se non si attenta al potere e ci si mette a traverso alle sue regole, si può anche discutere di tutto; nel mondo dei Soprano -così reale che anche le bottiglie di vino che si consumano al ristorante sono proprio quelle giuste che vanno bevute- nessuno ti sta a sindacare se vuoi discutere di Carlo Marx o di Lacan, o dell’imperativo morale; magari il dibattito è un po’, come dire, sotto tono.  Come in questo mondo, dove però non ce n’è per tutti di niente.

Il Secolo XIX, 17 gennaio 2016