Aver Coraggio

L’ultimo giorno dell’anno passato questo quotidiano ha pubblicato un editoriale dal titolo “Il coraggio di sognare”, l’ha firmato il suo direttore e spero bene che i lettori ci abbiano meditato su quanto merita. I sogni del direttore, e dunque di questo giornale, sono di vasta portata e sincera ambizione, e richiedono un certo qual coraggio anche solo a elencarli; per non dire che già il fatto che un quotidiano sogni, e lo faccia nemmeno nella pagina degli spettacoli ma nella sua prima, lo rende oggetto singolare e alieno, persino collezionabile. Quel sognante editoriale mi ha fatto ricordare che io invece non sogno più da un pezzo, in particolare non in pubblico; un coraggio che mi è venuto a mancare. Gli eventi mi hanno piegato, la realtà mi tiene sotto il suo tallone di ferro, la sofferenza per l’abominevole andazzo delle cose si è andata pervertendo in sardonico cinismo, e questo non è bello, non è dignitoso e nemmeno sano. Ragion per cui mi sono imposto di farlo, di sognare, qui, nel mio primo articolo del nuovo anno. Sono su questa pagina da ore, cerco dei sogni, qualcuno mi si palesa e quasi me ne vergogno, sono sogni piccoli, modesti, familiari; niente di paragonabile alle Grandi Speranze di questo giornale. Niente di paragonabile nemmeno al discorso del presidente Mattarella, così apparentemente dimesso e invece di una certa qual sostanza addirittura utopica. No, non ho più coraggio di sognare giustizia e equità, e nemmeno sviluppo nell’armonia o confronto nella lealtà, ma solo robe che c’è quasi da vergognarsi. Che ne so, del tipo che la Telecom venga restituita al popolo a cui è stata con malizioso inganno sottratta, cosicché il popolo sovrano possa deliberare in ossequio alla Costituzione e al principio in essa enunciato delle pari opportunità tra cittadini che anche a me e ai miei vicini spetti una linea adsl, magari non veloce, anche solo normale, perché siamo 40 famiglie tutte oneste e lavoratrici che però si vive un po’ in periferia e la Telecom non se lo sogna nemmeno di sganciare dei soldi per fornici un servizio che ci farebbe lavorare e produrre molto meglio e molto di più, e magari vederci anche qualche filmetto ogni tanto, non dico di no. Insomma, sogno cose così, come di non schiattare sotto il martirio di una malattia invalidante, visto che quest’anno compirò 65 anni e Eurostat indica proprio in questa età la fine dell’attesa di vita sana in questo bel paese baciato dal sole e dalla dieta. Oh, un tempo non era così, fino a dieci anni fa si aveva l’opportunità di arrivare sani fin ben oltre la settantina, come in tutti gli altri paesi sviluppati, ma vuoi i grandi passi avanti nella tutela dell’ambiente, vuoi il ridimensionamento del pelandronismo nelle attività lavorative, vuoi la razionalizzazione del sistema sanitario nazionale, ora si vive di più, ma da malati, da molto malati, da rottami cronicizzati. E già che ci siamo sogno anche, meschinamente, di mantenere un reddito sufficiente a permettermi il sistema privato di prevenzione diagnostica e tutte quelle prestazioni a pagamento che mi hanno consentito di arrivare fin qui se non proprio sano almeno ben controllato e ben rappezzato, visto che negli ultimi tempi c’è stata una gran moria di gente, che non se ne vedeva così in quantità dai tempi della guerra, e pare ci sia qualche problema con la razionalizzazione della pubblica sanità, nel senso che si son fatti un po’ troppo prendere la mano dall’entusiasmo razionalizzatore.
Altro che I have a dream.
Ma mentre scrivo, e mi vergogno di quello che scrivo, scopro di avercelo anch’io un sogno di una qualche nobiltà. Sì, sogno di avere coraggio. Sono un intellettuale, questa è verità, sono un lavoratore della mente, e allora che mi prenda il coraggio di farla lavorare davvero questa mente, almeno finché di mente ce n’è, farla lavorare onestamente e duramente all’unica cosa che dà un qualche senso di pubblica utilità alla mia condizione. Che è dare luce, fare luce, chiarire, schiarire, mettere in vista, e non solo per quanto mi è possibile, ma più di quanto non mi appaia possibile a prima vista che è la vista della pigrizia. Che mi prenda il coraggio di stare su sedie scomode, in angoli angusti, per strade faticose, perché non mi sia possibile impigrirmi e deflettere dal dovere dell’oltranzismo, del rigorismo e dell’estremismo, gli imperativi morali dell’intellettuale; mediazioni, accomodamenti ed eventuali accordi attengono ad altre figure professionali. Sogno che mi prenda il coraggio di agire per la verità nella certezza di non essere io la verità, avendo come unico patrimonio spendibile per il bene la sincerità. Se mai avrò questo coraggio è assai probabile che risulti inutile, e assai più facilmente ancora dannoso, alla pubblica quiete. E allora avrò lavorato con profitto.
Il Sedolo XIX, 3 gennaio